Cupo, terribile, pieno di sangue e di tenebra: così è questo canto XXVIII, ossessivamente attraversato dall’inizio alla fine da sconce visioni di corpi mutilati, una più insopportabile dell’altra. (Lo “spettacolo” del corpo umano straziato e deformato dalla malattia, dalla fame o dalle torture è letteralmente osceno: non si regge – come già notavamo nella bolgia degli indovini – se non, per motivi opposti, in forza della pietà che lo cura o della perversione che ne gode. Carità o pornografia: questa è l’antitesi)
Dante non vuole che distogliamo lo sguardo, sembra volerci impedire di pensare ad altro che non siano quei moncherini, quei ventri sbudellati, quelle teste mozzate …
È solo splatter? Altissimo, geniale splatter con secoli di anticipo, ma in fondo solo splatter, cioè sensazione? No, naturalmente, perché la poesia di Dante non è mai una poesia di sensazioni, emozioni, sentimenti e risentimenti, effusioni o infusioni, sbocchi…
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