Fatta l’invocazione alle Muse, di cui non parliamo (vv. 7-12: se a qualcuno interessa, chiedete), inizia d’un tratto una musica soave, un canto di una dolcezza infinita: Dolce color d’orïental zaffiro, / che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo, puro infino al primo giro, // a li occhi miei ricominciò diletto, / tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta / che m’avea contristati li occhi e ‘l petto. (vv. 13-18)
La prima cosa da fare è assaporare questa dolcezza. Semplicemente. Consiglio di ripetere più volte questi versi, sottovoce, lasciando che si sciolgano in bocca e piano piano sciolgano il cuore. Meglio ancora sarebbe impararli a memoria e tenerli pronti quando c’è da contrastare il gusto ripugnante della lingua bastarda che tanto spesso ci tocca ascoltare ai nostri giorni.
Però non basta: non è un cioccolatino (che comunque è già qualcosa, a questo mondo: un Lindor è sufficiente a smentire…
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