Ciò che orienta il malinconico desio della sera, gli dà un senso e un compimento e lo salva dalla tentazione, sempre presente, di struggersi in una sorta di compiacimento un po’ morboso (come se il disagio della malinconia certificasse a noi stessi la nostra nobiltà d’animo), è semplicemente la preghiera.
«Era già l’ora che volge il disio / […] quand’io incominciai a render vano / l’udire» (vv.1. 7-8): l’elenco delle teste coronate sciorinato dal solerte cicerone Sordello, che ci aveva (moderatamente) interessato nel canto precedente, ora sembra evaporare a chiacchiera insignificante, che Dante non ascolta più; diventa quasi una sorta di “rumore bianco” di sottofondo, da cui egli si stacca per approdare al silenzio.
Il silenzio, unico habitat in cui la preghiera può vivere, è la pre-condizione necessaria per poter guardare e ascoltare: «[incominciai a render vano / l’udire] e a mirare una de l’alme / surta…
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