Secondo filo da seguire, nel tessuto del nostro canto. Le lacrime. Dopo essersi svegliato, nel modo che sappiamo, dal sogno della femmina balba ed essersi accostato, camminando impensierito e curvo «come colui […] / che fa di sé un mezzo arco di ponte» (vv. 41-42), al punto di uscita dalla cornice degli accidiosi, Dante viene accolto dall’angelo guardiano, che «Mosse le penne poi e ventilonne, / ‘Qui lugent’ affermando esser beati, ch’avran di consolar l’anime donne» (vv. 49-51). È la parafrasi di una beatitudine evangelica (Mt 5,5), con la non irrilevante sfumatura (che non mi pare molto notata dai lettori) di una felice ambiguità: là dove il testo evangelico dice «beati coloro che piangono perché saranno consolati» (e gli esegeti ci spiegano che quello è il cosiddetto “passivo divino”, per cui si deve intendere: perché Dio li consolerà), Dante traduce: “Beati coloro che piangono, che avranno le anime donne
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